A seguito di Lampo Gamma del 2017, Andrea Salini torna sulle scene con un nuovo disco, Roses. Questo ultimo rappresenta, per il compositore e chitarrista, “un viaggio di nove tappe, dove perdersi e ritrovarsi nello stesso tempo”.
In realtà, dietro a questa opera, già a partire dal titolo, si nasconde un pensiero molto profondo e fondamentale che non sta a me svelare, ma che invito tutti a indagare andando sul sito dell’artista.
Detto ciò, partiamo con il nostro ascolto.
Into the storm inizia con dei suoni tribali per poi aprirsi in un rock nel quale si percepisce abbastanza chiaramente una punta di blues; segue Irina con un sound più grezzo e punk, abbastanza orecchiabile.
Con Rock’n roll dreamer incontriamo una melodia più pacata e, coerente con il titolo, sognante e ovattata.
Verum Rosa si apre con una poesia e rimane strumentale, incentrata quindi su una vena più soave ed eterea.
Roses torna su un terreno più ritmato con un rock godibile e non troppo elaborato, per qualche strano verso mi ha ricordato Bruce Springsteen.
Starfighter è interamente strumentale e a cantare è interamente la chitarra, stranamente l’assenza di una voce non rappresenta un fattore negativo in alcun modo.
Take you back inizia con del vociare in sottofondo, si aggiungono dei suoni di scratching per poi arrivare a un ritmo che ammicca al reggae, veramente una traccia singolare.
Arriviamo a Love song, un brano tranquillo e introspettivo, in un certo senso evocativo.
The name of the rose è un momento delicato in cui il protagonista assoluto è il pianoforte con una melodia piacevole e delicata.
Dunque, Roses è tutto fuorchè scontato: al suo interno troviamo più generi che, paradossalmente, funzionano abbastanza bene insieme. Non ho ancora capito se il merito sia di Andrea (e degli altri musicisti) o se sono io a dover imparare ad allargare i miei orizzonti.
Comunque sia, la coesistenza di un pò di blues, di punk, di rock’n roll e un velo di reggae regala all’ascoltatore l’idea di essere un pò cittadino del mondo, questo a livello di pura melodica.
Per quanto concerne i testi o comunque il concept di fondo, non posso che fare un plauso a chi ha il coraggio di fare questo tipo di scelte stilistiche in modo coerente e pulito.
Se vi dicessi che Roses è un disco rock, risulterei riduttiva e decisamente generica, in realtà esso è un qualcosa di più profondo e impegnativo che consiglio un pò a tutti, giusto per aprire la mente, poi sarete voi stessi a giudicare se vi aggrada o meno.
In realtà, dietro a questa opera, già a partire dal titolo, si nasconde un pensiero molto profondo e fondamentale che non sta a me svelare, ma che invito tutti a indagare andando sul sito dell’artista.
Detto ciò, partiamo con il nostro ascolto.
Into the storm inizia con dei suoni tribali per poi aprirsi in un rock nel quale si percepisce abbastanza chiaramente una punta di blues; segue Irina con un sound più grezzo e punk, abbastanza orecchiabile.
Con Rock’n roll dreamer incontriamo una melodia più pacata e, coerente con il titolo, sognante e ovattata.
Verum Rosa si apre con una poesia e rimane strumentale, incentrata quindi su una vena più soave ed eterea.
Roses torna su un terreno più ritmato con un rock godibile e non troppo elaborato, per qualche strano verso mi ha ricordato Bruce Springsteen.
Starfighter è interamente strumentale e a cantare è interamente la chitarra, stranamente l’assenza di una voce non rappresenta un fattore negativo in alcun modo.
Take you back inizia con del vociare in sottofondo, si aggiungono dei suoni di scratching per poi arrivare a un ritmo che ammicca al reggae, veramente una traccia singolare.
Arriviamo a Love song, un brano tranquillo e introspettivo, in un certo senso evocativo.
The name of the rose è un momento delicato in cui il protagonista assoluto è il pianoforte con una melodia piacevole e delicata.
Dunque, Roses è tutto fuorchè scontato: al suo interno troviamo più generi che, paradossalmente, funzionano abbastanza bene insieme. Non ho ancora capito se il merito sia di Andrea (e degli altri musicisti) o se sono io a dover imparare ad allargare i miei orizzonti.
Comunque sia, la coesistenza di un pò di blues, di punk, di rock’n roll e un velo di reggae regala all’ascoltatore l’idea di essere un pò cittadino del mondo, questo a livello di pura melodica.
Per quanto concerne i testi o comunque il concept di fondo, non posso che fare un plauso a chi ha il coraggio di fare questo tipo di scelte stilistiche in modo coerente e pulito.
Se vi dicessi che Roses è un disco rock, risulterei riduttiva e decisamente generica, in realtà esso è un qualcosa di più profondo e impegnativo che consiglio un pò a tutti, giusto per aprire la mente, poi sarete voi stessi a giudicare se vi aggrada o meno.
Fonte: metalwave.it
0 commenti